18 febbraio 2012

Cassazione, 9 febbraio 2012, n. 5000 detenzione sostanza stupefacente: la quantità non basta a dimostrare il fine di spaccio


In materia di detenzione di sostanza stupefacente, a seguito della depenalizzazione della detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti in esito al referendum abrogativo di talune disposizioni del d.P.R. n. 309/90, la destinazione allo spaccio costituisce un elemento costitutivo della fattispecie e, come tale, deve essere provata dall’accusa, non potendosi far carico all’imputato dell’obbligo di provare la diversa destinazione, al solo uso personale, della sostanza stupefacente posseduta.

Con la sentenza n. 40668  depositata il 9 novembre 2011, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi dell’argomento e, in particolare, degli elementi fattuali che possono condurre al riconoscimento dell’attività di spaccio. Secondo un insegnamento consolidato, infatti, il giudice, nel ricostruire il fine della detenzione, deve tener conto di ogni circostanza che si riveli utile, in concreto, a dimostrare o a escludere che l’imputato abbia, in tutto o in parte, destinato allo spaccio la sostanza stupefacente di cui è in possesso. 

Il dato quantitativo può certo soccorrere al fine di escludere l’uso personale, ma ogni circostanza deve essere letta nel più ampio contesto degli elementi probatori assunti e, quindi, occorre sempre valutare tutte le altre circostanze che siano indicative di un uso non esclusivamente personale dello stupefacente detenuto.

E così, la Corte di Cassazione, nel caso in commento, ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Trento, che aveva ritenuto un soggetto responsabile del reato di cui all’ art. 73 d.P.R. n. 309/90 per aver detenuto nella propria abitazione circa venti grammi di marijuana. Secondo il Collegio gli ulteriori elementi fattuali assunti, ovvero l’essere stato visto dai carabinieri operanti entrare e uscire da un esercizio pubblico e “avvicinarsi a più persone con fare anomalo”, l’aver fumato uno spinello insieme ad un’altra persona, l’aver detenuto in casa, sotto il materasso, 300 euro, lungi dal provare, oltre ogni ragionevole dubbio, che lo stupefacente non fosse destinato ad un uso personale, non appaiono idonei a dimostrare il fine di spaccio della detenzione.
 
Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, 9 febbraio 2012, n. 5000

Svolgimento del processo
1. Con la decisione in epigrafe la Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, ha confermato la sentenza del 29 maggio 2008 con cui il G.u.p. del Tribunale di Bolzano, in sede di giudizio abbreviato, aveva ritenuto M.A. responsabile del reato di cui all’art. 73 d.P.R. 309/1990, per avere detenuto a fine di spaccio gr. 22,90 di marijuana e, ritenuta l’ipotesi lieve, lo aveva condannato alla pena di un anno di reclusione ed euro 3.000 di multa.
2. Ricorre per cassazione l’imputato, personalmente.
Con il primo motivo deduce la manifesta illogicità della motivazione, in quanto le sentenze di merito non avrebbero dimostrato che la detenzione del quantitativo di marijuana fosse finalizzata allo spaccio. Più precisamente il ricorrente assume che i giudici hanno trascurato una serie di elementi da cui emergerebbe, comunque, l’uso personale dello stupefacente.
Con il secondo motivo denuncia l’erronea applicazione delle disposizioni processuali, in quanto la sentenza non avrebbe potuto utilizzare come fonti di prova le dichiarazioni dell’imputato rese nel corso dell’attività ispettiva in cui sarebbero emersi fatti apprezzabili come reato.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è fondato.
La sentenza impugnata afferma correttamente che in materia di stupefacenti il superamento dei limiti massimi indicati nel decreto ministeriale, cui fa riferimento l’art. 73 comma 1-bis lett. a) d.P.R. 309/1990, non costituisce una presunzione assoluta in ordine alla condotta di “spaccio” del detentore, ma che occorre valutare anche altre circostanze che siano indicative di un uso non esclusivamente personale dello stupefacente detenuto; tuttavia, a tale affermazione non corrisponde una altrettanto corretta individuazione e valutazione degli “ulteriori elementi”, in quanto la Corte territoriale da rilievo a fatti e circostanze del tutto inidonei a dimostrare la destinazione a terzi dello stupefacente detenuto dall’imputato.
Questi i dati presi in considerazione: a) l’essere stato visto dai carabinieri operanti entrare e uscire da un esercizio pubblico e “avvicinarsi a più persone con fare anomalo”; b) l’aver fumato uno spinello insieme ad un’altra persona (T. ); c) l’aver negato ai Carabinieri di detenere stupefacenti; d) l’aver detenuto in casa, sotto il materasso, 300 euro; f) l’aver detenuto in casa gr. 22,9 di marijuana.
Si tratta di elementi tendenzialmente neutri, che non appaiono in grado di provare, oltre ogni ragionevole dubbio, che lo stupefacente non fosse destinato ad un uso personale. Privo di significato è il riferimento, contenuto in sentenza, ad un atteggiamento “anomalo” dell’imputato, non avendo i giudici precisato in cosa sia consistita l’anomalia riscontrata dai Carabinieri operanti; nessun rilievo può essere attribuito al fatto che l’A. abbia negato di detenere stupefacenti, tenuto conto che anche la semplice detenzione è comunque vietata nel nostro ordinamento, sicché un tale atteggiamento trova piena giustificazione anche rispetto ad una detenzione finalizzata al consumo personale per evitare l’applicazione delle sanzioni amministrative; anche il rinvenimento della somma di denaro nell’abitazione non costituisce elemento che possa dimostrare l’attività di spaccio, dal momento che si tratta di una somma modesta, proporzionata al reddito di un dipendente di albergo, qual è l’imputato; nessun rilievo può essere attribuito alla circostanza che l’A. “fumava uno spinello insieme al T. “, dal momento che la stessa formulazione dell’accusa riconosce, implicitamente, essersi trattato di un uso personale, tanto è vero che la contestazione dell’art. 73 d.P.R. 309/1990 riguarda esclusivamente il quantitativo di marijuana rinvenuto presso l’abitazione dell’imputato, sicché l’affermazione contenuta in sentenza, secondo cui non vi sarebbe alcun dubbio “che l’A. abbia ceduto uno spinello al T. ” è del tutto apodittica, sfornita di ogni riscontro.
Come unico dato obiettivo resta il possesso di gr. 22,90 di marijuana, che l’imputato ha ammesso di detenere per uso personale. Tuttavia, il mero dato quantitativo del superamento dei limiti tabellari previsti dall’art. 73, comma 1-bis, lett. a), d.P.R. n. 309 del 1990, non vale ad invertire l’onere della prova a carico dell’imputato, ovvero ad introdurre una sorta di presunzione, sia pure relativa, in ordine alla destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale (cfr., tra le tante, Sez. VI, 28 gennaio 2008, n. 17899, Cortucci; Sez. VI, 12 febbraio 2009, n. 12146, Delugan). In questi casi, il giudice deve valutare globalmente, sulla base degli ulteriori parametri indicati nella predetta disposizione normativa, se le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da escludere una finalità esclusivamente personale della detenzione.
Poiché nella presente fattispecie il giudice, come si è visto, non ha indicato ulteriori circostanze idonee a dimostrare un uso diverso da quello personale deve escludersi la sussistenza del reato. Del resto, deve rilevarsi che non appare contestato che l’A. faccia abitualmente uso di marijuana e dalla stessa sentenza risulta che nella sua abitazione non è stato rinvenuto alcun oggetto utilizzabile per la suddivisione in dosi della confezione di marijuana rinvenuta, circostanze queste che confermano la mancanza di prove per affermare che la detenzione dello stupefacente fosse collegata ad una attività di spaccio.
4. Pertanto, la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Depositata in Cancelleria il 09 febbraio 2012

Nessun commento:

Posta un commento