Visualizzazione post con etichetta diritto processuale civile. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta diritto processuale civile. Mostra tutti i post

8 maggio 2012

Opposizione a decreto ingiuntivo e compensazione delle spese di lite


Una condomina proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale il Giudice di Pace di Roma le aveva intimato il pagamento delle quote condominiali non versate in favore del Condominio, deducendo di non aver ricevuto il verbale assembleare e le relative convocazioni concernenti l’approvazione delle menzionate quote, nonché i documenti giustificativi delle spese condominiali dovute. Si costituiva l’amministratore di condominio chiedendo il rigetto dell’opposizione; deduceva l’infondatezza delle deduzioni avversarie e chiedeva in via riconvenzionale il pagamento di una somma a titolo di maggior danno. Il Giudice di Pace adito rigettava l’opposizione ritenendola infondata, condannando la condomina al pagamento delle spese del giudizio.

Avverso tale decisione ricorreva in appello la condomina, riproponendo le domande ed eccezioni già formulate e chiedendo la condanna del Condominio alla restituzione dell’importo che aveva dovuto nel frattempo corrispondere a fronte della pronuncia di primo grado e del relativo precetto. Il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento dell’impugnazione, revocava il decreto ingiuntivo opposto in considerazione del fatto che la condomina aveva comunque pagato in epoca successiva alla notificazione del provvedimento monitorio e del relativo precetto la minor somma dovuta a titolo di oneri condominiali come da lei stessa riconosciuto. Il Tribunale, inoltre, riformava la decisione per quanto riguardava le spese liquidate nel decreto e nel precetto, attesa la notevole discrasia tra gli importi richiesti in via stragiudiziale con sollecito (Euro 1.105,67) e quelli con il provvedimento monitorio (Euro 667,27), per cui condannava il Condominio a restituire all’appellante la somma di Euro 1.961,36, con gli interessi legali dalla data dell’esborso; compensava le spese del doppio grado in ragione di 1/2 ponendo la residua metà che liquidava, a carico della condomina.

Quest’ultima, tuttavia, ricorreva in Cassazione deducendo la violazione dell’art. 91 c.p.c. in quanto era stata posta a carico della “parte totalmente vittoriosa” una quota delle spese processuali, nonché la violazione dell’art. 92 c.p.c. per l’arbitraria e immotivata compensazione parziale delle spese legali liquidate in sentenza.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6616 del 30 aprile 2012, ha osservato che le doglianze in oggetto partono tutte da un presupposto erroneo e cioè che la condomina possa ritenersi “parte totalmente vittoriosa”. Nella fattispecie, infatti, la ricorrente non può ritenersi totalmente vittoriosa in quanto è stata costretta comunque a corrispondere al Condominio una parte della somma ingiunta pari agli oneri condominiali che erano effettivamente dovuti, come riconosciuto dalla stessa.

Al riguardo, proprio la Corte di Legittimità  ha sancito che: “nel procedimento per decreto ingiuntivo, la fase che si apre con la presentazione del ricorso e si chiude con la notifica del decreto, non costituisce un processo autonomo rispetto a quello che si apre con l’opposizione, ma da luogo ad un unico giudizio, nel quale il regolamento delle spese processuali, che deve accompagnare la sentenza con cui è definito, va effettuato in base all’esito della lite: ne consegue che, ove la somma chiesta con il ricorso sia riconosciuta solo parzialmente dovuta, non contrasta con gli artt. 91 e 92 c.p.c. la pronuncia di parziale compensazione delle spese processuali, in quanto l’iniziativa processuale dell’opponente, pur rivelandosi necessaria alla sua difesa, non ha avuto un esito totalmente vittorioso, così come quella dell’opposto, che ha dovuto ricorrere al giudice per ottenere il pagamento della parte che gli è riconosciuta” (Cass.Civ. n. 19120 del 3 settembre 2009).

In ordine alla valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale delle spese, la Corte ha ricordato che essa rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito.

12 marzo 2012

Cassazione, 5 marzo 2012, n. 3376 ricorso in cassazione e quesito di diritto


Marito e moglie decidevano di divorziare. Oggetto della contesa, tanto per cambiare, i soldi! Il Tribunale adito, all’esito del giudizio, riconosceva alla donna, in forza delle sue ridotte capacità reddituali, un assegno divorzile pari a 120 euro mensili. Tuttavia, la donna impugnava la sentenza, chiedendo che l’assegno fosse elevato a 800 euro. E ciò in considerazione della lunga durata del matrimonio (durato ben 25 anni), dell’apporto dalla stessa recato alla conduzione familiare e all’azienda del coniuge, nonché della situazione economica precaria derivante dall’aver svolto attività di casalinga, e successivamente di donna delle pulizie, a fronte dell’attività imprenditoriale del marito. Quest’ultimo si difendeva affermando di non svolgere più alcuna attività lavorativa e di percepire una pensione, con la quale doveva provvedere al mantenimento della nuova moglie e dei suoi figli rimasti orfani di padre. La Corte d’Appello accoglieva parzialmente il gravame, e rideterminava l’assegno divorzile, elevandolo a 250 euro.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3376 del 5 marzo 2012, ha dichiarato inammissibile il ricorso in quanto i due quesiti formulati dal ricorrente si appalesano del tutto astratti e non collegati alla ratio decidendi e con la motivazione della sentenza, cosi da non rispondere alla prescrizione dell’art. 366 bis c.p.c. . Secondo la disposizione in parola, applicabile nel caso di specie, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo di ricorso si deve concludere con un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera di non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Nei casi previsti dagli altri numeri dell’art. 360, il quesito deve essere formulato in modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta non potendo il quesito risolversi in un’enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di specifico riferimento alla fattispecie in questione e alla soluzione datane nella sentenza impugnata, né potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo.

31 gennaio 2012

Corte di Cassazione, 24 gennaio 2012, n. 939 compensazione spese di lite: solo se vi è reciproca soccombenza o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 939, depositata il 24 gennaio 2012, cassando la sentenza del giudice di merito che, nel rigettare l’opposizione a precetto, aveva compensato le spese del giudizio senza motivare in ordine alle gravi ed eccezionali ragioni sussistenti, ha sancito che, nei procedimenti soggetti al novellato art. 92 c.p.c., qualora non si versi in ipotesi di reciproca soccombenza, è legittima la compensazione parziale o per intero delle spese processuali soltanto quando i giusti motivi a tal fine ravvisati siano dal giudice esplicitamente indicati.
La disposizione in parola, infatti, stabilisce che:
Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all'articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all'art. 88, essa ha causato all'altra parte.
 Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti.Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione”

28 gennaio 2012

Corte di Cassazione, 30 dicembre 2011, n. 30652 citazione in appello: la mancanza dell'avvertimento ex art. 163, terzo comma, n. 7 c.p.c. non causa automaticamente la nullità dell’impugnazione


La sentenza della Corte di Cassazione n. 30652, depositata il 30 dicembre 2011, ponendosi in netto contrasto con l’orientamento giurisprudenziale più consolidato, ha affermato che l’omesso avvertimento all’appellato, nell’atto di citazione in appello, delle conseguenze derivanti dalla costituzione tardiva (art. 163, terzo comma, n. 7 c.p.c.) non determina automaticamente un “error in procedendo” sanzionato da nullità del procedimento di impugnazione, col conseguente rinvio per la rinnovazione, qualora l’atto sia notificato al procuratore costituito in primo grado e la parte contumace non sia in grado di indicare quale pregiudizio al proprio diritto di difesa sia derivato da tale omissione.

Così decidendo, la Cassazione ha rigettato il ricorso, presentato dalla parte contumace in appello, con il quale la stessa denunciava la nullità della sentenza e del procedimento per mancanza, nell’atto di citazione notificato al procuratore costituito in primo grado, dell’avvertimento relativo alle conseguenze della costituzione tardiva.
Per comprendere l’iter logico seguito dalla Corte nella sentenza n. 30652/2011, è necessario procedere per gradi.

In forza dell’art. 359 c.p.c., nel procedimento d’appello davanti al Tribunale o alla Corte si osservano le norme dettate per il procedimento di primo grado innanzi al Tribunale, compatibilmente con le particolari esigenze del processo di secondo grado e con le disposizioni speciali ad esso dedicate.

L’atto introduttivo del primo grado, come sappiamo, deve contenere tutti gli elementi previsti dall’art. 163 c.p.c., tra cui gli avvertimenti al convenuto, che sono:

- invito a comparire all’udienza indicata;
- invito al convenuto a costituirsi nel termine di 20 giorni prima dell’udienza, con l’espressa avvertenza che la mancata costituzione nei termini implica le decadenze di cui all’art. 167 (possibilità di proporre domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, chiamare in causa i terzi) nonché l’impossibilità di contestare la competenza del giudice adito ai sensi dell’art. 38.

Se trasponiamo quanto detto al giudizio d’appello, si comprende facilmente che gli avvertimenti concernenti le domande riconvenzionali, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio non hanno molto senso in sede di impugnazione, in quanto le relative preclusioni sono già eventualmente maturate nel primo grado di giudizio.
Si potrebbe obiettare affermando che per “domanda riconvenzionale” è da intendersi l’appello incidentale. In realtà la decadenza concernente la possibilità di proporre l’appello incidentale è specificamente prevista dall’art. 343 c.p.c., non già dall’art. 167 c.p.c. Di conseguenza, per ritenere che il richiamo dell’art. 167 si traduca in avvertimento mirato alla decadenza dall'appello incidentale è necessaria una interpretazione estensiva della disposizione in parola.

Tra le due decadenze (quella “generale” prevista dal 167 e quella “specifica” dettata dal 343 c.p.c.), inoltre, c’è una differenza sostanziale qualora (ed è il caso più diffuso), l’atto di citazione in appello sia notificato al procuratore costituito in primo grado, soggetto che, a differenza della parte sprovvista di cognizioni processuali, già conosce gli obblighi e le facoltà inerenti la difesa in appello e non ha bisogno di essere reso edotto di alcunché.
Del resto, anche qualora si ammetta che l’avvertimento ex art. 167, terzo comma, n. 7 faccia parte del contenuto necessario della citazione di appello, la mancanza dell’avvertimento stesso in un atto che contenga, come nella specie, la esatta indicazione della data per la quale l'appellato è invitato a comparire, impone alla parte normalmente diligente di comparire a quell’udienza e, in quella sede, eventualmente dedurre la mancanza ed ottenere nuovo termine per espletare le proprie difese.

Per evitare, quindi, che una garanzia meramente formale (che non necessariamente tutela una condizione di pregiudizio al diritto di difesa) possa automaticamente determinare la nullità degli atti svolti in contumacia dell’appellato, è necessaria una rilettura antiformalistica del sistema. Pertanto, la parte che, in sede di legittimità, invochi la nullità per mancanza dell’avvertimento ex art. 163, terzo comma, n. 7 c.p.c., deve necessariamente provare in che modo tale omissione abbia impedito la conoscenza del processo e la costituzione in giudizio.