20 febbraio 2012

Cassazione, 10 gennaio 2012, n. 201 minaccia azione legale? non è reato


Un signore veniva fermato dalla polizia a bordo di un'autovettura e invitato in Questura per accertamenti sulla carta di circolazione in suo possesso e sul materiale sospetto trasportato a bordo dell'auto. Contrariato per quanto stava accadendo, si rivolgeva ai poliziotti dichiarando che li avrebbe denunciati tutti, avendo a disposizione parecchi avvocati. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere prima, e la Corte d’Appello di Napoli poi, dichiaravano l’uomo colpevole del reato di minaccia a pubblico ufficiale ex art. 336 c.p.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 201 del 10 gennaio 2012, accogliendo il ricorso dell’imputato, ha rilevato che “l'espressione profferita non può ritenersi univocamente una prospettazione di un ingiusto male, finalizzata ad opporsi al compimento di un atto del pubblico ufficiale, ma al contrario ben può essere considerata manifestazione di un disappunto, finalizzata alla tutela dei propri diritti, attinenti alla sfera della libertà personale”.

Sul punto giova premettere che la minaccia, nel sistema penale, consiste nella prospettazione di un male ingiusto e futuro, quale alternativa per per la mancata sottomissione alla volontà dell’agente.  Mentre, “male” è da intendersi come lesione o messa in pericolo di beni giuridici del soggetto passivo del reato o di terzi a lui collegati.

Secondo il Collegio, la prospettazione di volersi rivolgere ai propri legali al fine di tutelare i propri diritti non è comportamento idoneo a coartare le determinazioni del pubblico ufficiale, ma rappresenta una mera manifestazione di disappunto, penalmente non rilevante.

Del resto, seppur con riferimento al diverso reato di estorsione, proprio la Suprema Corte ha chiarito che l'esercizio di un diritto o la minaccia di una iniziativa legale in tal senso, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio, non presenta di per sé i caratteri propri della minaccia necessaria per la astratta configurabilità del reato ex art.629 c.p., essendo esclusivamente diretto alla legittima realizzazione di un diritto proprio dell'agente, a meno che lo scopo non sia quello di attingere, con altrui danno, un vantaggio ulteriore e diverso.  


Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, 10 gennaio 2012, n. 201

Fatto e diritto
P.N. ricorre per cassazione contro la sentenza in data 21/11/2008, con la quale La Corte di appello di Napoli ha confermato la decisione in data 4/12/2006 emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che lo aveva dichiarato colpevole del reato di cui all'art.336 c.p. e condannato alla pena di giustizia.
Si addebitava al predetto di avere usato minaccia nei confronti di appartenenti alla Squadra Mobile di Caserta, che lo avevano fermato a bordo di un'autovettura, per impedire loro di condurlo in Questura per identificarlo e per effettuare accertamenti sulla carta di circolazione in suo possesso e sul materiale sospetto trasportato a bordo dell'auto, dichiarando che li avrebbe denunciati tutti, avendo a disposizione parecchi avvocati.
A sostegno della richiesta di annullamento dell'impugnata decisione il ricorrente denuncia l'erronea applicazione della legge penale e il difetto di motivazione in riferimento alla valutazione del requisito oggettivo del reato, sostenendo che l'espressione riferita ai verbalizzanti esulava dal concetto di violenza o minaccia, finalizzata ad influire sull'atto di ufficio che i poliziotti stavano compiendo e che derubricato il reato in ingiuria o minaccia, si doveva emettere sentenza di n.d.p. per difetto di querela.

Il ricorso è fondato.

La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che ai fini della consumazione del reato ex art.336 c.p., l'idoneità della minaccia posta in essere per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri di ufficio deve essere valutata ex ante, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto e in particolare del tenore delle espressioni verbali e del contesto nel quale esse di collocano, onde verificare se e in quale grado essa abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa (ex plurimis Cass. Sez. VI 16/4-31/7/08 n. 32390 Rv. 240650).

Nel caso in esame non è condivisibile la decisione del giudice di merito che ha ravvisato gli estremi della minaccia nella condotta del ricorrente, giacché l'espressione profferita non può ritenersi univocamente una prospettazione di un ingiusto male, finalizzata ad opporsi al compimento di un atto del pubblico ufficiale, ma al contrario ben può essere considerata manifestazione di un disappunto, finalizzata alla tutela dei propri diritti, attinenti alla sfera della libertà personale. A tal proposito la giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito, sia pure in riferimento al diverso reato di estorsione, che l'esercizio di un diritto o la minaccia di una iniziativa legale in tal senso, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio, non presenta di per sé i caratteri propri della minaccia necessaria per la astratta configurabilità del reato ex art.629 c.p., essendo esclusivamente diretto alla legittima realizzazione di un diritto proprio dell'agente, a meno che lo scopo non sia quello di attingere, con altrui danno, un vantaggio ulteriore e diverso (Cass. Sez. II 16/1-8/4/01 n.16618; 4/11/09 - 7/1/10 n. 119).
Nel caso in esame la corte territoriale non ha affatto motivato sulle ragioni per le quali la denuncia prospettata dall'imputato potesse ritenersi una minaccia, idonea ad opporsi al compimento di un atto di ufficio del pubblico ufficiale, né ha evidenziato sulla base di quali elementi la frase profferita dal ricorrente dovesse ritenersi finalizzata ad impedire il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale, piuttosto che una manifestazione di disappunto per l'operato degli agenti e dunque la manifestazione di una propria volontà di tutelarsi in via legale.
La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

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