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7 febbraio 2012

Cassazione n. 4064/2012 niente facebook agli arresti domiciliari, ma si può usare internet


Può un soggetto sottoposto alla misura degli arresti domiciliari utilizzare Facebook, Twitter o altri social network? La risposta della Corte di Cassazione è in senso negativo. Con la sentenza n. 4064, depositata il 31 gennaio 2012, la Quarta Sezione Penale ha, infatti, rigettato il ricorso presentato da un ragazzo al quale era stata sostituita la misura degli arresti domiciliari con quella della custodia in carcere in quanto, violando il divieto di comunicare con terzi previsto dall’ art. 276, comma 1, c.p.p., aveva utilizzato Facebook per chattare con un altro coimputato. Tuttavia, nella pronuncia in commento, la Corte ha ribadito che l’utilizzo di Internet non è illecito qualora assuma mera funzione conoscitiva.

5 febbraio 2012

Corte di Cassazione 1 febbraio 2012 n. 4377 stupro di gruppo: custodia cautelare in carcere non sempre necessaria, occorre valutare il caso concreto


Analizziamo la tanto discussa sentenza della Corte di Cassazione n. 4377, depositata l’1 febbraio 2012. A pochi giorni dal suo deposito, tanto si è detto, molto si è scritto ma, specie nei salotti televisivi, non son mancate le solite castronerie (qualcuno ha detto perfino detto che la Cassazione avrebbe depenalizzato lo stupro di gruppo!). Tuttavia, l’operatore del diritto non può certo fermarsi ad un esame superficiale delle cose. Cerchiamo, quindi, di capire il senso e la portata della decisione del Collegio.

Partiamo da una premessa. Il delitto di violenza sessuale di gruppo, previsto dall art. 609-octies del codice penale, rappresenta senza dubbio una delle novità di maggior rilievo della riforma operata con la Legge 15 febbraio 1996, n. 66. La sua introduzione nel tessuto normativo risponde ad una precisa esigenza di politica criminale, ossia sanzionare, in maniera più incisiva, una forma di violenza, quella di gruppo, dotata di una particolare carica di aggressività. Potremmo quindi dire che il Legislatore ha scelto di elevare a figura autonoma di reato un’ipotesi di concorso materiale di persone.

Ciò detto, la Corte di Cassazione nel caso de quo è chiamata a decidere sul ricorso, presentato da due soggetti indagati per il reato di cui all’art. 609-octies c.p., avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma, che confermava nei loro confronti la custodia cautelare in carcere, già disposta dal Giudice per le Indagini Preliminari.

La Cassazione, con la sentenza n. 4377/2012, ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame ritenendo sussistente un duplice vizio:

1. Carenza della motivazione con riferimento al giudizio sulla gravità del quadro indiziario
Dagli elementi fattuali assunti non era affatto chiaro se la violenza sessuale ai danni della ragazza vi fosse stata oppure no.
2. Errata interpretazione e applicazione del regime di applicazione della misura cautelare
Sotto quest’ultimo profilo, che è quello che ha suscitato polemiche, è necessario procedere per gradi e osservare quanto segue.

Giova brevemente chiarire che le misure cautelari sono misure di vario tipo e genere adottate dall’autorità giudiziaria, sia nel corso della fase delle indagini preliminari, sia nella fase processuale, ed hanno effetti limitativi della libertà personale o della disponibilità di beni al fine di evitare che il tempo, più o meno lungo, necessario alla conclusione del processo comprometta l'esplicazione della attività giudiziaria penale, pregiudicandone lo svolgimento ed il risultato.

La custodia cautelare in carcere, appartiene alla categoria delle misure cautelari personali coercitive, ed è la forma più intensa di privazione della libertà personale. Proprio per la sua gravità, tale misura deve essere applicata solo quando ogni altra misura risulti inadeguata.
L’art. 275, terzo comma, c.p.p. dispone che: “La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'art. 51, commi 3-bis  e 3-quater, nonché in ordine ai delitti di cui agli artt. 575, 600-bis, primo comma, 600-ter , escluso il quarto comma, e 600-quinquies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano anche in ordine ai delitti previsti dagli artt. 609-bis , 609-quater  e 609-octies del codice penale, salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate.”

La  disposizione in parola, così modificata dall’art. 2 del d.l. 23 febbraio 2009  n. 11, convertito con modificazioni, dalla Legge del 23 aprile 2009, n. 38, non consente di applicare una misura diversa dalla custodia cautelare in carcere alla persona nei cui confronti siano riconoscibili gravi indizi di colpevolezza per un’ampia serie di reati, tra i quali quelli c.d.“sessuali” ovvero: prostituzione minorile (art. 600-bis), pornografia minorile (art. 600-ter), iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-quinquies), violenza sessuale (art. 609-bis), atti sessuali con minorenne (art. 609-quater), violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies).
La novella del 2009 ha, quindi, introdotto una vera e propria presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in rapporto ai succitati delitti.

Solo un anno dopo, però, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 265 del 2010, chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’ art. 275, comma 3, c.p.p. in riferimento agli artt. 3, 13, comma 1, e 27 Cost., ha espresso il principio generale, fondato anche sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui, in materia di misure cautelari non possono valere presunzioni assolute di adeguatezza della misura carceraria che prescindano dalla fattispecie concreta. E tanto è stato affermato dalla Consulta con riferimento ai reati previsti agli artt. 609-bis e 609-quater c.p.

Questi, in sintesi, i cinque passaggi logici della pronuncia della Corte Costituzionale n. 265/2010:
1. la disciplina delle misure cautelari personali è improntata al criterio del minore sacrificio necessario ossia la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato va contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto;
2. tale criterio viene garantito mediante la previsione di una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, nonché attraverso meccanismi “individualizzati” di selezione del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete;
3. il regime così delineato non ammette né automatismi né presunzioni. Esso esige, al contrario, che le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, così da realizzare una piena “individualizzazione” della coercizione cautelare;
4. in materia di misure cautelari, quindi, fatta eccezione per i reati di natura mafiosa, non sono applicabili presunzioni assolute di adeguatezza della sola misura carceraria che prescindano dalla fattispecie concreta;
5. l’intervento legislativo del 2009, ha introdotto una presunzione assoluta di adeguatezza della misura carceraria che equipara alcuni reati, come quelli sessuali, del tutto eterogenei, e, quindi, si pone in netto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1, e 27 della Costituzione.


La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4377 dell’1 febbraio 2012,  ha esteso i principi interpretativi fissati dalla Corte Costituzionale con riferimento ai reati di ex art. 609-bis e 609-quater c.p,. al reato di violenza sessuale di gruppo. Conseguentemente, ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva ritenuto scontato che, in presenza di gravi indizi del reato ex art. 609-octies c.p., si versi in ipotesi di applicazione del divieto di graduazione della misura cautelare rinveniente dal novellato art. 275 c.p.p..

Concludendo, la Corte non ha affatto "depenalizzato" il reato (nè potrebbe farlo!) piuttosto, applicando i principi già affermati un anno e mezzo prima dalla Corte Costituzionale, ha escluso che al soggetto indagato per il reato di violenza sessuale di gruppo debba necessariamente applicarsi la custodia cautelare in carcere. La pronuncia, quindi, segna un ritorno al regime antecedente alla citata riforma del 2009 (nata sulla scorta del crescente allarme sociale) e va contestualizzata in un mutato contesto legislativo. Che la Cassazione abbia voluto suggerire la strada al Legislatore?