5 febbraio 2012

Corte di Cassazione 1 febbraio 2012 n. 4377 stupro di gruppo: custodia cautelare in carcere non sempre necessaria, occorre valutare il caso concreto


Analizziamo la tanto discussa sentenza della Corte di Cassazione n. 4377, depositata l’1 febbraio 2012. A pochi giorni dal suo deposito, tanto si è detto, molto si è scritto ma, specie nei salotti televisivi, non son mancate le solite castronerie (qualcuno ha detto perfino detto che la Cassazione avrebbe depenalizzato lo stupro di gruppo!). Tuttavia, l’operatore del diritto non può certo fermarsi ad un esame superficiale delle cose. Cerchiamo, quindi, di capire il senso e la portata della decisione del Collegio.

Partiamo da una premessa. Il delitto di violenza sessuale di gruppo, previsto dall art. 609-octies del codice penale, rappresenta senza dubbio una delle novità di maggior rilievo della riforma operata con la Legge 15 febbraio 1996, n. 66. La sua introduzione nel tessuto normativo risponde ad una precisa esigenza di politica criminale, ossia sanzionare, in maniera più incisiva, una forma di violenza, quella di gruppo, dotata di una particolare carica di aggressività. Potremmo quindi dire che il Legislatore ha scelto di elevare a figura autonoma di reato un’ipotesi di concorso materiale di persone.

Ciò detto, la Corte di Cassazione nel caso de quo è chiamata a decidere sul ricorso, presentato da due soggetti indagati per il reato di cui all’art. 609-octies c.p., avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma, che confermava nei loro confronti la custodia cautelare in carcere, già disposta dal Giudice per le Indagini Preliminari.

La Cassazione, con la sentenza n. 4377/2012, ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame ritenendo sussistente un duplice vizio:

1. Carenza della motivazione con riferimento al giudizio sulla gravità del quadro indiziario
Dagli elementi fattuali assunti non era affatto chiaro se la violenza sessuale ai danni della ragazza vi fosse stata oppure no.
2. Errata interpretazione e applicazione del regime di applicazione della misura cautelare
Sotto quest’ultimo profilo, che è quello che ha suscitato polemiche, è necessario procedere per gradi e osservare quanto segue.

Giova brevemente chiarire che le misure cautelari sono misure di vario tipo e genere adottate dall’autorità giudiziaria, sia nel corso della fase delle indagini preliminari, sia nella fase processuale, ed hanno effetti limitativi della libertà personale o della disponibilità di beni al fine di evitare che il tempo, più o meno lungo, necessario alla conclusione del processo comprometta l'esplicazione della attività giudiziaria penale, pregiudicandone lo svolgimento ed il risultato.

La custodia cautelare in carcere, appartiene alla categoria delle misure cautelari personali coercitive, ed è la forma più intensa di privazione della libertà personale. Proprio per la sua gravità, tale misura deve essere applicata solo quando ogni altra misura risulti inadeguata.
L’art. 275, terzo comma, c.p.p. dispone che: “La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'art. 51, commi 3-bis  e 3-quater, nonché in ordine ai delitti di cui agli artt. 575, 600-bis, primo comma, 600-ter , escluso il quarto comma, e 600-quinquies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano anche in ordine ai delitti previsti dagli artt. 609-bis , 609-quater  e 609-octies del codice penale, salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate.”

La  disposizione in parola, così modificata dall’art. 2 del d.l. 23 febbraio 2009  n. 11, convertito con modificazioni, dalla Legge del 23 aprile 2009, n. 38, non consente di applicare una misura diversa dalla custodia cautelare in carcere alla persona nei cui confronti siano riconoscibili gravi indizi di colpevolezza per un’ampia serie di reati, tra i quali quelli c.d.“sessuali” ovvero: prostituzione minorile (art. 600-bis), pornografia minorile (art. 600-ter), iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-quinquies), violenza sessuale (art. 609-bis), atti sessuali con minorenne (art. 609-quater), violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies).
La novella del 2009 ha, quindi, introdotto una vera e propria presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in rapporto ai succitati delitti.

Solo un anno dopo, però, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 265 del 2010, chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’ art. 275, comma 3, c.p.p. in riferimento agli artt. 3, 13, comma 1, e 27 Cost., ha espresso il principio generale, fondato anche sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui, in materia di misure cautelari non possono valere presunzioni assolute di adeguatezza della misura carceraria che prescindano dalla fattispecie concreta. E tanto è stato affermato dalla Consulta con riferimento ai reati previsti agli artt. 609-bis e 609-quater c.p.

Questi, in sintesi, i cinque passaggi logici della pronuncia della Corte Costituzionale n. 265/2010:
1. la disciplina delle misure cautelari personali è improntata al criterio del minore sacrificio necessario ossia la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato va contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto;
2. tale criterio viene garantito mediante la previsione di una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, nonché attraverso meccanismi “individualizzati” di selezione del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete;
3. il regime così delineato non ammette né automatismi né presunzioni. Esso esige, al contrario, che le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, così da realizzare una piena “individualizzazione” della coercizione cautelare;
4. in materia di misure cautelari, quindi, fatta eccezione per i reati di natura mafiosa, non sono applicabili presunzioni assolute di adeguatezza della sola misura carceraria che prescindano dalla fattispecie concreta;
5. l’intervento legislativo del 2009, ha introdotto una presunzione assoluta di adeguatezza della misura carceraria che equipara alcuni reati, come quelli sessuali, del tutto eterogenei, e, quindi, si pone in netto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1, e 27 della Costituzione.


La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4377 dell’1 febbraio 2012,  ha esteso i principi interpretativi fissati dalla Corte Costituzionale con riferimento ai reati di ex art. 609-bis e 609-quater c.p,. al reato di violenza sessuale di gruppo. Conseguentemente, ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva ritenuto scontato che, in presenza di gravi indizi del reato ex art. 609-octies c.p., si versi in ipotesi di applicazione del divieto di graduazione della misura cautelare rinveniente dal novellato art. 275 c.p.p..

Concludendo, la Corte non ha affatto "depenalizzato" il reato (nè potrebbe farlo!) piuttosto, applicando i principi già affermati un anno e mezzo prima dalla Corte Costituzionale, ha escluso che al soggetto indagato per il reato di violenza sessuale di gruppo debba necessariamente applicarsi la custodia cautelare in carcere. La pronuncia, quindi, segna un ritorno al regime antecedente alla citata riforma del 2009 (nata sulla scorta del crescente allarme sociale) e va contestualizzata in un mutato contesto legislativo. Che la Cassazione abbia voluto suggerire la strada al Legislatore?




Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, 1 febbraio 2012, n. 4377

RILEVA
Con ordinanza in data 19 Agosto 2011 il Tribunale di Roma, quale giudice del riesame, ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare emessa il 5 Agosto 2011 dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Cassino nei confronti dei due ricorrenti per il reato previsto dal’art. 609-octies c.p. commesso in danno di persona minore di età.
Il Tribunale, ricostruito sinteticamente il fatto e fatto rinvio all’ordinanza emessa dal Giudice delle indagini preliminari in ordine ai momenti essenziali della vicenda, ha concentrato la propria attenzione sui due aspetti di maggiore criticità sollevati dagli indagati: a) il contrasto di versioni tra la persona offesa e loro stessi con riferimento alla volontarietà dei rapporti sessuali pacificamente intrattenuti; b) l’esistenza di esigenze cautelari attuali.
Sul primo aspetto il Tribunale ha ritenuto di condividere il giudizio del Giudice delle indagini preliminari circa la genuinità del racconto della persona offesa, anche se ha considerato scarsamente rilevanti le discrasie nel racconto dei due indagati che, invece, il primo giudice aveva valorizzato.
Una volta ritenuta la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il Tribunale ha considerato che il reato ex art.609-octies c.p. rientra fra quelli per i quali, secondo il terzo comma dell’art. 275 c.p.p., come modificato dal d.l. 23 febbraio 2009, n.11, convertito in legge 23 aprile 2009, n.38, si prevede come obbligatoria la misura della custodia in carcere, a meno che non risultino elementi specifici che escludono la presenza di esigenze cautelari, condizione che nel caso in esame non si pone.
Avverso tale decisione i (omissis) hanno presentato ricorso.
L’avv. (omissis) difensore del (omissis) in sintesi lamenta:
1. L’esistenza di un contrasto tra l’art. 275, terzo comma, c.p.p. e gli artt., 13 e 27 della Costituzione con riferimento al regime cautelare da applicare in ipotesi di reato ex art. 609-octies c.p., con conseguente richiesta di investire la Corte costituzionale della relativa questione;
2. L’errata applicazione dell’art. 274 c.p.p. per avere il Tribunale omesso di considerare la rilevanza decisiva del tempo trascorso dei fatti e per avere omesso ogni motivazione sul punto.
L’avv. (omissis) difensore del (omissis) in sintesi lamenta:
1. Carenza e illogicità della motivazione ex art.606, lett. e) c.p.p. in relazione all’obbligo che l’art.292, comma 2, lett.c-bis, c.p.p. pone anche al tribunale del riesame di esaminare puntualmente le argomentazioni difensive. Invero, il Tribunale, dopo avere ritenuto serie e plausibili le argomentazioni proposte dalla difesa ha illogicamente concluso per la conferma del provvedimento impugnato;
2. Errata applicazione di legge e vizio di motivazione ex art.606, lett.b) ed e) c.p.p. per avere il Tribunale, nonostante i numerosi elementi positivi addotti a sostegno della impostazione difensiva, richiamato la obbligatorietà della misura della custodia in carcere ex art.275, terzo comma, c.p.p. senza estendere anche a tale norma i principi fissati dalla Corte costituzionale con la sentenza n.265 del 21 luglio 2010;
3. Difetto di costituzionalità dell’art.275, terzo comma, c.p.p., se non interpretato in conformità alla citata sentenza della Corte costituzionale, con conseguente trasmissione degli atti a tale Corte per l’esame del contrasto tra la norma richiamata e gli artt.2, 3, 24, 25, 27 e 111 della Costituzione.
L’avv. (omissis) in sintesi lamenta:
1. Vizio di motivazione in relazione alla gravità del quadro indiziario per avere il Tribunale erroneamente e illogicamente valutato sia la rilevanza della presenza di sole modeste ecchimosi sul corpo della giovane sia le ragioni che l’avrebbero portata a costruire ex post un racconto non veritiero;
2. Errata applicazione dell’art. 275 c.p.p. in relazione al reato ex art.609-octis c.p. per avere il Tribunale omesso di dare alla norma processuale una interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza che la Corte costituzionale allorché ha esaminato la medesima disposizione in relazione all’art.609-bis c.p. (sentenza n.265 del 2010).
OSSERVA
La Corte ritiene che l’ordinanza sia incorsa in un duplice vizio.
Il primo riguarda la carenza della motivazione con riferimento al giudizio sulla gravità del quadro indiziario. Appare evidente alla Corte che la vicenda si connota per una certa complessità e delicatezza, attese le modalità della condotta imputata ai due ricorrenti e attesa la condotta tenuta dalla persona offesa dopo i fatti, quale emerge dalla stessa ordinanza impugnata. In tale contesto la motivazione dei giudici avrebbe dovuto essere particolarmente attenta a valutare tutti gli elementi presenti in atti e a fornire una ricostruzione coerente degli elementi posti a fondamento della decisione.
Rispetto a tale esigenza risulta non coerente l’assenza di motivazione circa la genesi e il contenuto del contatto telefonico che la giovane avrebbe involontariamente attivato con il padre mediante il proprio telefono cellulare nel corso della permanenza nell’autovettura assieme ai ricorrenti; si tratta di carenza motivazionale che non consente di comprendere quanta parte del contatto sia stata percepita dal genitore e in quale contesto si collochino le brevissime espressioni della giovane riportate nell’ordinanza. Sul punto appaiono fondate, indipendentemente dalle conseguenze di merito che le difese intendono trarne, le censure della difesa. Altrettanto rilevante appare alla Corte il difetto di esame di quanto accaduto al momento in cui la giovane fece rientro alla propria abitazione pochi minuti dopo la fine della violenza che ella ha solo successivamente riferito.
La Corte ritiene che si sia in presenza di un difetto di motivazione che incide in modo decisivo sulla tenuta logica dell’intero percorso motivazionale e che impone una nuova valutazione.
Il secondo vizio concerne l’errata interpretazione e applicazione della legge processuale con riferimento al terzo comma dell’art. 275 c.p.p.
Il Tribunale ha ritenuto scontato che in presenza di gravi indizi del reato ex art. 609-octies c.p. si versi in ipotesi di applicazione del divieto di graduazione della misura cautelare fissato dal terzo comma dell’art.275 c.p.p. nel testo risultante dalla modifica apportata dall’art.2 del d.l. 23 febbraio 2009, 11 convertito, con modificazioni dalla legge 23 aprile 2009, n.38. Tale interpretazione trascura il contenuto della sentenza n.265 del 2010, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’analoga disposizione processuale con riferimento ai reati previsti dagli artt.600-bis, 609-bis e 609-quater, n.1, c.p. Se è vero che il giudice delle leggi non è stato interessato specificamente dell’esame del regime cautelare concernente l’art.609-octies c.p., ma solo di quello applicabile ai citati reati richiamati anch’essi dal terzo comma del citato art. 275 c.p.p., non vi è dubbio che i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza del 2010 appaiono potenzialmente riferibili anche alla disposizione di legge contestata agli odierni ricorrenti e che il giudice è chiamato ad affrontare il tema di quali siano le conseguenze che l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale ha sul caso in esame.
In modo del tutto corretto le difese hanno sollecitato la Corte a valutare, in primo luogo, se l’art.275, terzo comma, c.p.p. possa essere interpretato in modo coerente coi principi fissati dalla Corte costituzionale anche con riferimento al reato ex art.609«octies c.p., e solo in caso di risposta negativa a valutare se sussistano la non manifesta infondatezza e la rilevanza di un quesito da sottoporre alla Corte medesima.
Questo giudice ritiene che dalla lettura della citata sentenza della Corte costituzionale emerga l’esistenza di principi interpretativi direttamente applicabili all’art.275, terzo comma, c.p.p. nella parte in cui disciplina il regime cautelare applicabile a persone raggiunte da gravi indizi del reato ex art.609-octies c.p.
Nel corso della motivazione della sentenza n.265 del 2010 la Corte costituzionale ha ricostruito la filosofia che anima la disciplina delle misure cautelari personali affermando (paragrafo 4) che quel regime è improntato al criterio del “minore sacrificio necessario”, assicurato mediante la previsione di una “pluralità graduata” di misure e mediante l’applicazione nel caso concreto di meccanismi “individualizzati” di selezione del trattamento cautelare. Ha, poi, rilevato (paragrafo7) che una simile filosofia non tollera né automatismi né presunzioni e prevede che sia il giudice ad apprezzare e motivare i presupposti e le condizioni per l’applicazione della singola misura in relazione alla situazione concreta. Ha, conseguentemente, considerato (paragrafo 7) che la disciplina introdotta con il citato decreto legge n.11 del 2009, e successiva legge di conversione, si pone come un “vero e proprio regime cautelare speciale di natura eccezionale” dal momento che introduce due presunzioni, una relativa in ordine alle esigenze cautelari e una assoluta in ordine alla scelta della misura, che impedisce al giudice di adottare misure meno gravose della custodia in carcere.
La motivazione prosegue affrontando (ancora nel paragrafo 7) le ragioni per cui la Consulta e la Corte di Strasburgo hanno ritenuto che per i delitti legati alla criminalità organizzata e mafiosa tale eccezionale regime sia compatibile coi principi costituzionali in relazione alla speciale gravità e pericolosità degli illeciti, per giungere alla conclusione (paragrafi 9 e 10) che la novella del 2009 compie un “salto di qualità” non compatibile col sistema costituzionale allorché estende 1a presunzione assoluta circa la misura da applicare anche a reati, come quelli sessuali, che non si prestano a generalizzazioni, che risultano ampiamente eterogenei tra loro, che non presentano nella norma legami qualificati tra l’indagato e un ambiente delinquenziale pericoloso.
Osserva, ancora, la Corte costituzionale (paragrafi 10 e 11) che la irragionevolezza della soluzione normativa può essere agevolmente apprezzata ove si considerino la circostanza che i reati di violenza sessuale comprendano “condotte nettamente differenti quanto a modalità lesive del bene protetto” e la circostanza che solitamente si tratti di delitti meramente individuali che possono essere affrontati in concreto anche con misure diverse dalla custodia in carcere. Infine, la ragionevolezza del regime introdotto nel 2009 non può essere fondata sull’esigenze di risposta all’allarme sociale per il moltiplicarsi di delitti a sfondo sessuale, esigenza che “non può essere peraltro annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione”.
Sulla base di tali e altre considerazioni, la sentenza giunge ad affermare l’esistenza del contrasto tra la disciplina cautelare citata e gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione.
Così riassunti i principi interpretativi che la Corte costituzionale ha fissato con riferimento ai reati ex art. 609-bis e 609-quater c.p., questo giudice ritiene evidente che si è in presenza di principi “in toto” applicabili anche alla ipotesi di reato ex art. 609-octies c.p., reato che presenta caratteristiche essenziali non difformi da quelle che la Corte costituzionale ha individuato per i reati sessuali (art. 609-bis e art. 609-quater c.p.) sottoposti al suo giudizio in relazione alla disciplina ex art. 275, terzo comma, c.p.p.
Deve, dunque, concludersi che nel caso in esame l’unica interpretazione compatibile coi principi fissati dalla sentenza n.265 del 2010, citata, è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure di diverse dalla custodia carceraria anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all’art. 609-octies c.p.p.
Sulla base delle considerazioni che precedono la Corte ritiene che i vizi di motivazione sopra indicati impongono di annullare l’ordinanza impugnata, con rinvio degli atti al Tribunale di Roma per un nuovo esame che terrà conto dei principi fissati in questa sede.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Roma.
La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell’Istituto Penitenziario competente perché provveda a quanto stabilito dall’art. 94, comma 1-ter, delle norme di attuazione al Codice di procedura penale.
Così deciso in Roma il giorno 20 gennaio 2012.
Depositata in cancelleria l’ 1 febbraio 2012.

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