17 gennaio 2012

Corte di Cassazione, 22 dicembre 2011, n. 28286 Abuso del processo e frazionamento della domanda risarcitoria nascente da fatto illecito in materia di circolazione stradale


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28286 del 22 dicembre 2011, torna ad occuparsi del tanto discusso “abuso del processo”, muovendosi nel solco interpretativo già tracciato dalla ormai “celebre” pronuncia delle Sezioni Unite n. 23726 del 15 novembre 2007.

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte presenta notevoli profili d’interesse. Il sig. G.F., coinvolto in un incidente alla guida del proprio ciclomotore, conveniva il Comune di Lucca in due distinti giudizi: uno, dinanzi al Giudice di Pace, teso ad ottenere il ristoro dei danni materiali riportati dal veicolo;  l’altro, dinanzi al Tribunale, finalizzato ad ottenere il risarcimento dei danni alla persona (nella specie lesioni personali con postumi invalidanti).
Il giudizio dinanzi al Giudice di Pace, instaurato precedentemente, si concludeva con il riconoscimento della responsabilità del Comune convenuto, con conseguente condanna dello stesso al risarcimento dei danni materiali. La relativa sentenza passava, quindi, in giudicato. Il Tribunale di Lucca, al contrario, rigettava la domanda risarcitoria. E lo stesso faceva la Corte d’Appello investita dell’impugnazione. Con quali motivazioni? Essenzialmente, i giudici di merito ritenevano non conforme ai principi di buona fede e di correttezza il frazionamento della pretesa risarcitoria nascente da un fatto illecito unitario.

La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione nella sentenza in commento, confermando il decisum dei primi due gradi di giudizio, ha affermato che, in caso di danni a cose ed alla persona subiti in occasione di un unico sinistro, non possa consentirsi al danneggiato di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande davanti al Giudice di Pace ed al Tribunale, in ragione delle rispettive competenze per valore, trattandosi di condotta lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, e tale da risolversi in un abuso dello strumento processuale, alla luce dell’art. 111 Cost..
In particolare, secondo la Corte di Legittimità, i principi di buona fede e correttezza, espressioni del dovere inderogabile di solidarietà sancito dall’art. 2 della Carta Costituzionale, non restano circoscritti al mero rapporto obbligatorio e contrattuale, ma spiegano altresì i loro effetti sul piano della “dinamica dell’azione”, consentendo di prevenire forme di abuso dello strumento processuale. E tanto può essere affermato sulla scorta di un mutato quadro giurisprudenziale evolutosi nella duplice direzione, sia di una sempre più accentuata valorizzazione della regola di correttezza e buona fede di cui si è detto, sia in relazione al canone del  "giusto processo", espresso dall’art. 111 Cost.

Ma in che modo la “parcellizzazione” dell’azione risarcitoria può tradursi in abuso?
Per rispondere a questa domanda occorre aver essenzialmente riguardo all’interesse del danneggiante debitore, il quale sarebbe di fatto costretto a doversi difendere in più giudizi, con conseguente aggravio di spese. Inoltre, la disarticolazione dell’azione processuale originariamente unitaria comporta per il debitore stesso un prolungamento del vincolo nascente dall’obbligazione per fatto illecito.
Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, 22 dicembre 2011, n. 28286

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
G. F. conveniva, davanti al tribunale di Lucca, il Comune di Lucca chiedendone la condanna al risarcimento dei danni alla persona subiti in occasione del sinistro stradale in cui aveva riportato, oltre al danno materiale al proprio ciclomotore, anche lesioni personali.
Nel ricorso faceva presente di avere già convenuto lo stesso Comune davanti al giudice di pace competente per il risarcimento dei danni materiali, riservandosi di promuovere separato giudizio per ottenere il risarcimento per le lesioni riportate.
La sentenza del giudice di pace, che riconosceva la responsabilità del Comune convenuto, con la conseguente condanna al risarcimento dei danni materiali, passava in giudicato.
Il Tribunale di Lucca, con sentenza del 6.2.2008, rigettava la domanda.
Ad eguale conclusione perveniva la Corte d'Appello che, con sentenza del 29.4.2009, rigettava l’ appello proposto dal F.
Quest'ultimo ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi illustrati da memoria.
Resiste con controricorso il Comune di Lucca.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il D. Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l'applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo I.
I motivi rispettano i requisiti richiesti dall'art. 366 bis c.p.c.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. in relazione agli artt. 1181 c.c. , 1175 c. c. , 539 c.p.p., 277 c.p.c. e 278 c.p. c. con riferimento all'art. 360, n. 3, c.p.c..
Il motivo non è fondato.
Diversamente da quel che sembra ritenere l'odierno ricorrente, infatti, i principi di buona fede e di correttezza, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all'inderogabile dovere di solidarietà di cui all’ art. 2 Cost. , costituiscono un canone oggettivo ed una clausola generale che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all’agire processuale nei suoi diversi profili.
Il criterio della buona fede costituisce, quindi, strumento, per il giudice, atto a controllare, non solo lo statuto negoziale nelle sue varie fasi, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi, ma anche a prevenire forme di abuso della tutela giurisdizionale latamente considerata, indipendentemente dalla tipologia della domanda concretamente azionata (v. ad es. Cass. 3.12.2008 n. 28719; Cass. 11.6. 2008 n. 15476) .
Che è ciò che si verificherebbe con il consentire la “parcellizzazione" della tutela processuale dell’azione extracontrattuale per i danni materiali e personali da circolazione stradale, davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, quando le conseguenze dannose derivanti dal fatto illecito si siano puntualmente e definitivamente verificate.
Anche in questo caso, infatti, esiste una controparte (il danneggiante) i cui interessi meritano una equilibrata tutela, senza consentirne alterazioni ad opera del danneggiato-creditore, con il prolungamento ed i costi ulteriori di una inutile duplicazione dell'azione processuale per i danni conseguenti ad unico fatto illecito.
Ed allora, una tale disarticolazione dell'unico rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, con l’aggravamento della posizione del danneggiante debitore, per essere attuata con ed attraverso il processo, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale.
Con la violazione anche della finalità deflattiva insita nella norma costituzionale dell’ art. 111 per il paradosso esistente tra la moltiplicazione dei processi e la possibile limitazione della relativa durata.
Del resto, in tema di rapporto tra giudizi pendenti davanti al giudice di pace ed al tribunale, il principio della necessaria unicità del giudizio davanti al tribunale è, dall'art. 40, ult. comma c.p.c. proclamato in modo espresso, anche per le domande solo connesse tra loro.
Nel caso in esame, i criteri identificativi della domanda erano gli stessi, il rapporto era identico, il fatto illecito generatore del danno era unico e le sue conseguenze dannose si erano definitivamente verificate, sia in rapporto alle conseguenze materiali, sia a quelle personali, delle quali l'originario attore chiedeva il risarcimento.
Emerge, infatti, dagli atti che, al momento della proposizione della domanda davanti al primo giudice, l'odierno ricorrente fosse pienamente conscio anche dei danni personali conseguenti al fatto illecito (consolidamento dei postumi invalidanti - invalidità riconosciuta dall’INAIL) .
In tale situazione, alla luce delle considerazioni che precedono, non è giustificabile la disarticolazione della tutela giurisdizionale richiesta mediante la proposizione di distinte domande, privilegiando la scelta del giudice di pace secondo la sua corretta individuazione per valore.
E ciò, neppure con la riserva di far valere ulteriori e diverse “voci di danno" in altro procedimento, che l’ attuale ricorrente aveva inserito nella domanda proposta con il primo giudizio.
La strumentalità di una tale condotta frazionata è - come già detto - evidente, ma non è consentita dall'ordinamento che le rifiuta protezione per la violazione di precetti costituzionali e valori costituzionalizzati, concretizzandosi, in questo caso, la proposizione della seconda domanda, in un abuso della tutela processuale, ostativa al suo esame.
Né, in questo caso, può invocarsi, in senso contrario, il principio seguito dalla giurisprudenza della corte di cassazione, per il quale la riserva di far valere ulteriori danni in un autonomo giudizio, sia consentita (ad es. Cass. 30.10.2006 n. 23342; ma v. anche Cass. 22.8.2007 n. 17873; cass. 7.12.2004 n. 22987).
Per le caratteristiche del caso in esame - in cui il danno derivante dall'unico fatto illecito riferito alle cose ed alla persona si era già verificato nella sua completezza -, il consentire un uso parcellizzato della tutela processuale colliderebbe con i principi ricordati, nel mutato, ed attuale, assetto dei valori costituzionali, cui deve necessariamente ispirarsi anche il processo civile.
Correttamente, pertanto, il giudice del merito ha, sotto questo profilo, rigettato. la domanda.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 11 disp. sulla legge in generale (Regio decreto 16.03.1942 n. 262), art. 25, secondo comma , della Costituzione e art. 5 c.p.c. .Anche questo motivo non è fondato.
Il ricorrente sostiene l’ erroneità della sentenza impugnata, per avere rigettato l’ appello sul presupposto della improponibilità della domanda, ricavata da una mutata interpretazione di principi giuridici, con effetto retroattivo: la domanda, infatti, al momento in cui era stata proposta (anno 2004) , era pienamente legittima alla stregua della giurisprudenza delle Sezioni Unite.
La tesi non può essere seguita.
Il “giusto processo" espresso dalla norma dell'art. 111 cost. come riformato con la legge costituzionale 23.11.1999 n. 2, sulla scia dei principi enunciati dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (art. 6) , e principio che nella giurisprudenza della Corte di cassazione, dopo la sua emersione, ha subito una maturazione interpretativa.
Le linee che si sono così delineate sono state caratterizzate dal legame inscindibile che ha legato la “giustezza del processo alla meritorietà della tutela giurisdizionale della situazione fatta valere dall'interessato e delle sue modalità di attuazione; di modo che una condotta che si fosse caratterizzata per l'uso strumentale del processo non avrebbe potuto trovare tutela nell'ordinamento (v. ad es. Cass. 10.10.2011 n. 20798; Cass. 10.5.2010; Cass. Ord. 3.5.2010 n. 10634, Cass. Ord. 5.2.2011 n. 2199; S.U. 14.1.2009 n. 553, Cass. 3.12.2008 n. 28719; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ora, è opportuno sottolineare che il precedente delle Sezioni Unite richiamato a proprio favore dal ricorrente (S.U. 10.4.2000 n. 108) - che consentiva il frazionamento della domanda relativa ad unico rapporto obbligatorio - era stato emesso in sede di risoluzione di contrasto fra le sezioni semplici, segno questo della non univocità, nel tempo, di una tale l'interpretazione giurisprudenziale.
Ma quel che più conta è che il concetto di giusto processo, con la riforma costituzionale dell'art. 111 (anno 1999), ancora non aveva subito - per la sua recente introduzione rispetto al momento della pronuncia delle sezioni unite richiamata (2000) - quella maturazione di interpretazione conclusasi con il definitivo approdo del 200? (S.U. 15.11.2007 n. 23726) .
In sostanza, ciò che si vuol dire è che la meritorietà della tutela, nella interpretazione della Corte di cassazione, si è evoluta fino ad acquisire un ruolo determinante come ratio decidendi della controversia; nel senso che non può essere accordata protezione ad una pretesa priva di meritorietà.
Non coglie nel segno, pertanto, il riferimento, cui fa cenno il ricorrente in memoria, circa il concetto di overruling (con la cit. Cass. 1165.2010 n. 14627), anche perché la rimessione in termini disposta dalla Corte, - a fronte di una possibile pronuncia di inammissibilità e di improcedibilità- , in quel caso, conseguiva ad una preclusione all'esame dell'atto di impugnazione - derivante da un mutamento di orientamento interpretativo - ; preclusione non prevista al momento del deposito dell’atto.
Né gli ulteriori precedenti in tema (Cass. ord. interl. 4.11.2011 n. 98; cass. Ord. interl. 8.6.2011 n. 12515; cass. Ord. 26.7.2011 n. 16365) sono rilevanti ai fini che qui interessano, perché si riferiscono alle attività necessarie alla proposizione del ricorso per cassazione, e, più in generale, a norme processuali relative al giudizio di legittimità, o a norme regolanti il processo, implicanti un vizio di inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione.
Ma il tema dell' overruling è stato oggetto di esame anche da parte delle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità (S.U. 11.7.2011 n. 15144) la quale con riferimento al tema qui in discussione - ha sancito che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (c.d. overruling) , il quale porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera - laddove il significato che essa esibisce non trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale - come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale ora per allora,‘ nel senso di rendere irrituale l‘atto compiuto od il comportamento tenuto dalla parte in base all'orientamento precedente.
Ora, qui non si tratta di impedire ex post l'esercizio di una tutela di cui l’ordinamento continua a ritenere la parte meritevole, quanto di non più consentire di utilizzare, per l'accesso alla tutela giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia.
Conclusivamente, il ricorso è rigettato.
La peculiarità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese fra le parti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa spese.
Così deciso il 28 ottobre 2011 in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di cassazione.

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