9 gennaio 2012

Corte di Cassazione, 22 dicembre 2011, n. 48072 insultare il condomino che chiede silenzio è reato


La Corte di Cassazione, con sentenza n. 48072, depositata il 22 dicembre 2011, confermando la decisione dei giudici di merito, ha condannato una donna per il reato di ingiuria (art. 594 c.p.) per aver “eufemisticamente” mandato a quel paese l’inquilina del piano di sotto che, infastidita dal rumore, che non consentiva al suo bambino di otto mesi di dormire, aveva ripetutamente suonato il campanello per chiedere di fare silenzio.
Di tutta risposta, la donna aveva rivolto un “vaffa” all’indirizzo della vicina, seguito da altri frasi non propriamente eleganti.
Secondo la Corte, nonostante il degrado del linguaggio e l inciviltà che oramai contraddistingue il rapporto tra cittadini, nel caso de quo non può dubitarsi della portata offensiva delle frasi pronunciate; le quali, lungi dal costituire mero indice di cattiva educazione o di uno sfogo momentaneo, sono rivelatrici del disprezzo nei confronti dell’interlocutore, conseguentemente legittimano il ricorso alla tutela penale.
Eppure, in altri casi, la stessa Corte di Legittimità ha valutato tali espressioni come non idonee a ledere l’onore e il decoro protetto dalla norma incriminatrice (Cass. pen., sez. V, 13 luglio 2007, n. 27966; nonchè Cass. pen., sez. VII, 16 ottobre 2001, n.41752).
Quali sono le ragioni di un quadro giurisprudenziale così eterogeneo?
Per rispondere a questa domanda occorre partire da una considerazione. L’articolo 594 c.p. non tipizza in modo preciso la condotta delittuosa, ma si limita ad affermare, nell’incipit del primo comma, che: “Chiunque offende l'onore o il decoro di una persona presente è punito con…”.
In presenza di un dato testuale così ampio, per capire quando una determinata espressione possa ritenersi ingiuriosa oppure no, è necessario far riferimento a dei criteri di valutazione, mutuati dalla comune coscienza sociale, che potremmo così sommariamente sintetizzare:
1) Contenuto dell’espressione nel significato che essa riveste nel linguaggio comune;
2) Contesto spazio-temporale in cui l’espressione viene pronunciata;
3) Personalità dell’offeso e dell’offensore;
4) Rapporto intercorrente tra offeso ed offensore;
5) Presenza di eventuali antecedenti fattuali;
Applicando tali criteri al caso in esame, è evidente che una determinata espressione volgare, pur di uso comune, possa riacquistare una portata offensiva se pronunciata nel contesto dei rapporti di vicinato; rapporti che, come rilevato da Cassazione n. 3931 del 28 gennaio 2010, “devono essere improntati ad un maggiore rispetto reciproco tra le persone, perche' altrimenti inducono ad una impossibilita' di convivenza, che invece è necessitata dalla quotidiana relazione nascente dal fatto abitativo, e che deve essere garantita”.


Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, 22 dicembre 2011, n. 48072

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
La Corte di Cassazione osserva :
(omissis) è stata condannata, anche al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, nei due gradi di merito per il delitto di ingiuria in danno di (omissis) inquilina del piano sottostante che, infastidita dal rumore, che non consentiva al suo bambino di otto mesi di dormire, aveva bussato alla casa della vicina, scampanellando ripetutamente verso le ore 22,00, per protestare.
La condanna era fondata sulle dichiarazioni della parte civile, confortate da quelle rese dal marito dell’imputata, (omissis) , e da un vicino, (omissis).
Con il ricorso per cassazione l’imputata deduceva:
1) la omessa motivazione con riferimento alla verifica di attendibilità della deposizione della parte offesa, che non risultava affatto confermata dalle altre due testimonianze perché il (omissis) aveva sentito soltanto le due donne parlare ad alta voce ed il (omissis) aveva sentito soltanto la voce dell’imputata che diceva vaff…; in particolare il tribunale non avrebbe tenuto conto delle considerazioni contenute nell’atto di appello, motivando per relationem alla sentenza di primo grado;
2) la omessa e, comunque, illogica e contraddittoria motivazione in ordine alla portata ingiuriosa della frase pronunciata dalla ricorrente, che a sostegno dalla sua tesi richiamava anche alcune pronunce della Suprema Corte;
3) la violazione dell’art. 599 cod. pen., dovendosi nei fatti ravvisare reciprocità delle ingiurie o provocazione della (omissis) per omessa motivazione in ordine ad analoga richiesta contenuta nei motivi di appello;
4) la violazione degli artt. 185 cod. pen. e 1227 e 2059 cod. civ. per omessa motivazione in ordine al concorso di colpa della vittima e sulla liquidazione del danno morale.
I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da (omissis) non sono fondati.
E’, invero, infondato il primo motivo di impugnazione.
La parte lesa è stata ritenuta attendibile da entrambi i giudici di merito -le due sentenze essendo conformi si integrano- e le osservazioni della ricorrente, peraltro di merito perché sostanzialmente richiedono una rivalutazione della testimonianza della (omissis) degli altri due testi (omissis), marito della imputata, e (omissis) condomino, non consentono di mettere in dubbio le conclusioni alle quali sono pervenute le due prime sentenze.
Corretta appare la valutazione di attendibilità della parte lesa che –è appena il caso di ricordarlo- è, secondo costante giurisprudenza della Suprema Corte, testimone a tutti gli effetti, non essendo richiesti riscontri per una valutazione di attendibilità così detta estrinseca perché la posizione del teste parte-lesa non è parificabile a quella delle persone di cui all’art. 210 cod. proc. pen..
Che vi sia stato un diverbio tra le due donne -entrambe alzarono la voce- per ragioni condominiali è circostanza pacifica perché comprovata anche dalla testimonianze del (omissis) e del (omissis) che la (omissis) ebbe a pronunciare frasi offensive nei confronti della (omissis) è fatto che può ritenersi pacifico perché il (omissis) testimone indifferente, sentì almeno un epiteto ingiurioso.
Ed allora in tale quadro probatorio correttamente i giudici del merito hanno ritenuto pienamente attendibile la parte lesa che aveva riferito di essere stata investita dalla frasi ingiuriose riportate nel capo di imputazione.
Le suggestive osservazioni della ricorrente non scalfiscono il quadro probatorio sommariamente delineato.
Non può dubitarsi della portata offensiva delle frasi pronunciate dalla ricorrente.
Ed, infatti, pur dovendosi prendere atto del degrado del linguaggio e della inciviltà che oramai non di rado contraddistingue il rapporto tra i cittadini, il ripetuto epiteto vaff… accompagnato dalle espressioni non mi rompere i cogl…. e non mi rompere il c…., non è soltanto indice di cattiva educazione e di uno sfogo dovuto ad una pretesa invadenza dell’offeso, ma anche del disprezzo che si nutre nei confronti dell’interlocutore.
Né il richiamo a pregressa giurisprudenza di questa Corte consente di pervenire a diverse conclusioni perché i casi richiamati non sono sovrapponibili a quello in discussione in quanto l’uso ripetuto, che caratterizza l’episodio contestato alla (omissis) dei termini offensivi dinanzi ricordati correttamente è stato ritenuto dai giudici del merito, tenuto conto del contesto nel quale sono stati pronunciati –lite tra vicini-, è stato ritenuto offensivo.
Del resto è opportuno ricordare che la valutazione circa la portata offensiva delle frasi pronunciate spetta ai giudici di merito, che doverosamente debbono tenere conto del contesto nel quale si è verificato il fatto; la motivazione che sorregge tale valutazione è nel caso di specie congrua ed immune da manifeste illogicità e, quindi, non censurabile in sede di legittimità.
Anche il terzo motivo di impugnazione è destituito di fondamento.
Non vi sono elementi, emergenti dalle due sentenze di merito, per ritenere che anche la (omissis) abbia ingiuriato la ricorrente; anche la parte lesa ha alzato la voce, come riferito dai due testimoni, ma nessuno dei due ha sentito la stessa pronunciare ingiurie.
Non vi è spazio, pertanto, per la esimente della reciprocità di cui al comma 1 dell’art 599 cod. pen.
Ma, ha osservato ancora la ricorrente, la (omissis) ha scampanellato più volte, ha chiesto ricorrente, guarda che potrei anche denunciarti, cosicché ha posto in essere fatti ingiusti che hanno suscitato uno stato d’ira e legittimato la reazione della ricorrente.
La tesi non può essere accolta perché bussare alla porta di un vicino, anche se più volte, non è fatto che possa ritenersi ingiusto tanto da legittimare una reazione tanto scomposta; la, richiesta del silenzio perché a causa del rumore il figlio neonato della parte offesa non riusciva a prendere sonno può non essere opportuna se fatta dieci di sera -anche se bisognerebbe conoscere l’entità del rumore-, ma ancora una volta non costituisce per nulla fatto ingiusto al quale reagire in stato d’ira con frasi ingiuriose, perché corrisponde alle regole del vivere civile che un vicino par ragioni particolari - malattia di un congiunto, pianto di un neonato ed altro- possa bussare alla porta e chiedere di fare meno rumore.
Anche la frase potrei anche denunciarti -non si sa bene se riferita alla condotta rumorosa o, come è più logico ritenere, tenuto conto del momento in cui è stata pronunciata, alle prime frasi ingiuriose pronunciate dalla (omissis) non ha le caratteristiche del fatto ingiusto perché è pienamente legittimo che chi si senta offeso ricorra alla giustizia; ed è anche legittimo preannunciare una siffatta iniziativa.
Non ricorrono, pertanto, nemmeno i presupposti per l’esimente di cui all’art. 599, comma 2 cod. pen..
Quanto, infine, all’ultimo motivo di impugnazione va detto che i giudici del merito, hanno determinato -peraltro in una misura che non appare oggettivamente eccessiva- in via equitativa l’ammontare del danno morale risarcibile, tenuto conto del contesto nel quale il fatto si era verificato e, quindi, anche dei fatto che le offese erano state pronunciate in presenza anche di altre persone.
Si tratta di una valutazione discrezionale dei giudici di merito che, essendo sorretta da una motivazione non manifestamente illogica non è censurabile in sede di legittimità. Per le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese del procedimento ed alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano in complessivi €1.200,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano in complessivi €1.200,00, oltre accessori come per legge.
Così deliberato in Camera di consiglio , in Roma , in data 27 settembre 2011
IL PRESIDENTE
DEPOSITATA lN CANCELLERIA il 22 dicembre 2011


In senso contrario:
Cass. pen., sez. V, 13 luglio 2007, n. 27966
“Vi sono talune parole ed anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere sessuale, sono diventate di uso comune ed hanno perso il loro carattere offensivo, prendendo il posto nel linguaggio corrente di altre aventi significato diverso, le quali invece vengono sempre meno utilizzate; un simile fenomeno si è verificato rispetto a numerose locuzioni, quali ad esempio: «me ne fotto» in luogo di «non mi cale»; «è un gran casino» in luogo di «è una situazione disordinata» e del pari con riguardo all’espressione oggetto dell’imputazione, «vaff……», la quale trasformatasi sinanco dal punto di vista strutturale (trattasi ormai di un’unica parola), viene frequentemente impiegata per dire «non infastidirmi», «non voglio prenderti in considerazione» ovvero «lasciami in pace». In realtà è l’uso troppo frequente, quasi inflazionato, delle suddette parole che ha modificato in senso connotativo la loro carica: il che ha determinato e determina certamente un impoverimento del linguaggio e dell’educazione, non potendo peraltro negarsi che, in numerosi casi, l’impiego delle medesime non superi più la soglia della illiceità penale.”
Cass. pen., sez. VII, 16 ottobre 2001, n.41752
“Avuto riguardo all’ormai diffusa, ancorché deplorevole, abitudine, specie tra giovani, di far uso, nel parlare corrente, di espressioni gratuitamente volgari, deve escludersi che costituisca reato di ingiuria l’espressione «non rompere i c...» rivolta da un giovane automobilista ad altro giovane in occasione di un banale diverbio per motivi di viabilità.”

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